La nostra necessità vitale di connettersi con gli altri e il contesto ambientale, presuppone un percorso all’interno del quale si formano pensieri che a loro volta indirizzano verso comportamenti e abitudini. Il percorso ha certamente condizionanti di varia natura ( educazione, emulazione, elaborazioni, informazioni) che possono modificare i comportamenti e gli atteggiamenti di fronte a vari fenomeni sociali. Uniformare azioni e pensieri tende a dare una connotazione facilmente riconoscibile e assicura riconoscimento e senso di appartenenza. L’uniformarsi è un fenomeno quindi in parte, potremmo dire, fisiologico nella sua dinamica anche se è difficile stabilire i confini delle manipolazioni alla quale può soggiacere. Indubbiamente il consumismo e l’esplosione dei media ha mutato la dinamica dell’uniformarsi, incidendo sul meccanismo di condizionamento in maniera molto più marcata rispetto al passato. In relazione agli ultimi 2 anni si possono analizzare vari aspetti di come l’uniformarsi si sia realizzato attraverso fattori guida, marcatamente pervasivi. Questa premessa è importante per comprendere potenzialità e rischi della relazione medico/paziente. Infatti è stato ampiamente studiato come essa renda possibile la compliance del curato e l’efficacia della cura. Proprio questa caratteristica delle relazione rende anche possibili forme di manipolazione fino al plagio. Anche il medico, che si occupa del corpo deve essere consapevole di questo strumento ed usarlo secondo i vincoli che la deontologia gli impone e per rispetto verso la coscienza che integra la scienza di cui dispone. È alla luce di questa premessa che va considerato quanto avvenuto nella gestione delle pandemia di covid-19.
Il primo aspetto riguarda la paura che si è diffusa nei confronti di una malattia, amplificata dalle ricadute sociali ad essa collegate. Il distanziamento, il coprifuoco, l’esibizione della morte hanno superato l’impatto della malattia in sé e l’hanno trasformata in qualcosa che ha permesso l’uniformarsi di azioni e pensieri. Ciò ha facilitato l’accettazione di quanto veniva rappresentato in termini di realtà e delle conseguenze ad essa correlate. L’overdose informativa, spesso emotiva, è stata diffusa in maniera capillare e ha creato una certa uniformità nel pensiero e comportamento dei singoli. E’ stato più semplice accettare il racconto proposto, sia per la vulnerabilità indotta dalla paura e sia per le conseguenze difficili che sarebbero occorse nell’opporsi ad esso.
La valenza sociale e solidaristica sulla quale è stata fatta pressione è stata una condizione che ha agito come fattore di fronte al quale l’uniformarsi proteggeva da eventuali giudizi morali . Non uniformarsi poteva indurre , come in molti casi accaduto, alla rottura di legami e affetti ed entrare in una dimensione di non accettazione di sé.
Il riconoscimento di cui necessitiamo è soprattutto quella interiore che però necessita di processi lunghi, faticosi e spesso, dolorosi. Vi è una continuità tra il riconoscimento esteriore e quello interiore in una sorta di reciprocità indissolubile. Questo intricato rapporto implica elaborazione e accettazione dei riconoscimenti esterni sottoforma di un percorso di conoscenza di sé, rivolto a portare equilibrio nella nostra dimensione interiore. Rimanere in balia del solo riconoscimento esterno, labile ed effimero apre la strada verso meccanismi autodistruttivi ( Vd. Enzensberger). In sostanza abbiamo cercato di aggrapparci alla superficie di un riconoscimento esterno manipolatorio che si è poi frammentato, lasciando molte persone nell’incertezza di quanto accaduto.
I meccanismi autodistruttivi possono essere un passaggio necessario per ritrovare equilibrio ma si tratta di processi assai difficili e non privi di pericoli proprio perché non siamo educati a lavorare sulla costruzione di un equilibrio interiore. Uniformare il proprio comportamento, durante il periodo delle restrizioni prima e della vaccinazione di massa poi, ha permesso di sentirsi accettati e riconosciuti creando con il tempo una sorta di dipendenza , da una parte imposta e dall’altra autoimposta, verso un riconoscimento sociale. Questo vale per i pazienti, ma anche per i medici, che sono umani e perciò sensibili alle stesse dinamiche di adesione alle pressioni psicologiche esterne, non necessariamente economiche.
Inoltre la medicina di oggi è caratterizzata soprattutto dalla cura dell’oggetto corpo. Curare il corpo e avere rassicurazioni circa il nostro involucro esterno ci permette di ottenere riconoscimento in un mondo che guarda con attenzione smisurata al nostro stato di salute. I modelli che la società propone come esemplari di benessere sono sostanzialmente esteriori e nel pieno controllo delle proprie superficiali emozioni.
La malattia comporta un vissuto psichico multiforme in relazione alle proprie caratteristiche interiori e del significato che ogni specifica società attribuisce al concetto di malattia, intaccando l’equilibrio corpo-mente e spesso accentuando le nostre più profonde vulnerabilità. La medicina dovrebbe prevedere questi disequilibri e occuparsi si della malattia ma anche di attenuare gli sbilanciamenti interiori e le conseguenze relazionali che essa provoca. L’assoluta prevalenza dei messaggi esterni, ripetuti e ossessivi in direzione soprattutto del corpo, altera la possibilità di un vissuto più equilibrato di una eventuale malattia.
La malattia non è più una condizione prevalentemente personale ma coinvolge il senso di piena appartenenza al mondo esterno. La paura delle malattie che si è insinuata prepotente ha cambiato il significato della stessa. Il fenomeno va avanti da alcuni decenni: è esperienza comune osservare la capacità di avere un rapporto più intimo con il proprio vissuto della malattia in persone anziane rispetto a chi, più giovane, vive l’impronta ad essa data dalla società di oggi.
Il corpo sembra essere diventato l’oggetto esclusivo dell’attenzione dei medici e di tutte le sovrastrutture entro cui si muovono. Protocolli di cura, linee guida e raccomandazioni vengono spesso applicate ai corpi nel tentativo di prolungarne l’esistenza di giorni, mesi, forse anni, in un clima di distacco interpersonale sempre più evidente. Certamente l’indebolimento del vissuto spirituale, non necessariamente come pratica religiosa, amplifica quanto detto. Questo cambiamento culturale rischia di rendere il medico una sorta di “meccanico” della “macchina corpo”, privandolo della sua dimensione culturale più ampia che ha giocato un ruolo fondamentale fino a qualche decennio fa.
L’impronta biopolitica della società si è radicata attraverso il mercato e il controllo. L’esasperazione del senso di sicurezza che ci ammanta con precise indicazioni e regole riguardanti la salute, fa si che inevitabilmente si dipenda da essa.
Questa moltitudine di comunicazioni mediate da dispositivi e socialmedia appartengono sempre più alla sfera virtuale , provocando assuefazione e allo stesso tempo un fondo di incertezza e fragilità. Una fragilità di rappresentazione e riconoscimento perché’ unidirezionale. L’invito a esaltare il benessere in quanto antitesi della malattia è illusorio perché sempre nuove preoccupazioni sono destinare a prodursi.
Si sta perdendo il ruolo centrale del medico come perno della comunicazione con il paziente che non può essere sostituita da dialoghi a distanza mediati da un computer. Il modo e i toni attraverso cui proporre terapie o esami diagnostici sono fondamentali per la risposta mentale del paziente. Il tempo dell’ascolto , insieme all’ambiente in cui esso si produce, incide molto nel vissuto del paziente. Davvero pensiamo che ciò che accompagnerà il paziente quando uscirà dalla porta del nostro studio non incida su terapie e trattamenti proposti?
L’uniformarsi ritorna prepotente proprio nelle dinamiche di cura delle persone. L’impronta manipolatoria si può intravvedere dalle ‘certezze’ che vengono fornite alle persone, ma anche ai professionisti della salute, riguardo a “ nuove “ ricerche circa le cause , i rimedi o gli standard di riferimento delle malattie. I messaggi si concentrano sulla causa fisica, circoscritta , spesso genetica e sul rimedio altrettanto fisico sempre più “risolutivo”. Le modalità comunicative sono improntate alla “facilità” del messaggio, rivolto ad un’ ampia platea quasi sempre impreparata , e con contenuti incerti che lasciano quasi sempre interrogativi da chiarire nelle puntate successive. Questi ripetuti messaggi tengono i fruitori in uno stato di tenue soddisfazione ma al tempo stesso li abituano a tenere alta l’attenzione sui temi trattati. Il dubbio non è ovviamente sull’importanza della ricerca ma su come questa viene trasmessa e utilizzata non per informare ma per creare aspettative e interesse verso argomenti che potranno essere utilizzati in maniera manipolatoria. Questi aspetti interrogano i medici in quanto categoria su quanto siano stati e siano fedeli al loro mandato
Credo sia necessario dire tutta la verità , anche scomoda, su come e per quali fini viene indirizzata la ricerca. Assistiamo invece ad una retorica insopportabile da parte di chi dice cose in cui non crede e nemmeno pensa, nel tentativo di convincere gli altri della bontà del suo racconto. In questo Foucault è attualissimo.
Da più parti si legge l’attuale momento come essere un periodo di passaggio. Ma verso che cosa? Tutto quanto detto va nella direzione di provare a sostituire quanto di più “umano” esiste nell’individuo. Per umano intendo tutto quanto riguarda le emozioni e il confronto spesso conflittuale con la propria coscienza. Quali conseguenze possono esserci nella definizione di questo nuovo uomo? Quale il medico del futuro, presto rottamabile e sostituibile da un robottino che calcola velocemente un algoritmo impostato sulla base di dati freddi e, spesso, non depositari di verità assolute? Quali gli impatti sul nostro bisogno sano di vicinanza e riconoscimenti? Interrogativi pesanti ai quali bisognerebbe dare la giusta importanza per capire meglio verso cosa ci si sta avviando.