di Miriam Gandolfi, psicologa e psicoterapeuta dei sistemi complessi, febbraio 2022
In un mondo globalizzato e in costante, rapido mutamento i concetti di salute e malattia stanno cambiando. L’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, la definisce oggi “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assen-za di malattia”. Anche il concetto di malattia si è modificato: non è più intesa come esito di “semplici “processi biologici relativi alle condizioni di singoli soggetti, dovuta ad una specifica causa. Infatti ormai dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso si parla di global health, salute globale, per indicare le connessioni tra salute e problemi specifici legati alla globalizzazione. Il United States Institute of Medicine la definisce come l’insieme degli “aspetti della salute collettiva che trascendono i confini nazionali, possono essere influenzati da circostanze o mutamenti in altri paesi e possono essere meglio affrontati da situazioni cooperative”. Infatti, a differenza che nel passato, i problemi sanitari non sono più confinati all’interno dei singoli Paesi. Il passaggio al XXI secolo ha reso sempre più evidente la necessità di abbandonare uno sguardo da microscopio per adottare una visione complessa e interconnessa della salute e della malattia come esito del rapporto tra uomo e ambiente.
Dall’inizio del secolo il fenomeno si è fatto sempre più evidente e perciò anche prevedibile. La prima epidemia di SARS, scatenatasi in Cina nel 2002, si è diffusa così rapidamente in tutto il mondo che nel giro di 8 mesi ha coinvolto 29 paesi. Ancora più evidente è stata la diffusione di influenza da virus A (H1N1) che, partita nel 2009 da allevamenti di suini negli Stati Uniti e passando per il Messico, nel giro di un anno, 2010, si è trasformata in una pandemia che ha provocato 17.000 decessi.
Cosa hanno imparato gli esseri umani da questi eventi?
Gli economisti pare molto. Infatti da allora la diffusione epidemica di alcune malattie infettive, soprattutto alla luce dei meccanismi di contagio, è divenuta un paradigma per i professionisti dell’economia che vogliono descrivere le crisi finanziarie.
E gli scienziati della salute? Non molto se si guarda la gestione della nuova pandemia, peraltro attesa, di SARS-COV-2.
La nuova disciplina della salute globale ha ormai dimostrato che i programmi di controllo della diffusione per essere efficaci non possono ignorare che le relazioni tra la salute, le tendenze economiche e politiche della globalizzazione sono tutt’altro che secondarie. Per questo motivo il termine pandemia oggi dovrebbe essere sostituito da quello di sindemia: per comprendere non solo la diffusione ma soprattutto il modo di contrastare o prevenire una malattia si necessita dello studio del contesto sociale, politico e storico. In una parola è necessrio un approccio ecologico complesso (studio simultaneo di tutti gli aspetti coinvolti).
La cecità con cui il Vecchio Mondo Occidentale ha gestito la pandemia di Covid-19 ci dice quanto ancora antiquato ed autocentrato sia il modello di scienza medica adottato e rende conto degli esiti disastrosi proprio in quel mondo che si ritiene più evoluto. Mentre i dati più confortanti ci vengono da Paesi che siamo soliti definire eufemisticamente in via di sviluppo, per non dire esplicitamente sottosviluppati, anche a causa delle politiche di sfruttamento neocolonialistico.
Chi volesse scoprire e comprendere i meccanismi complessi che generano fenomeni sindemici e come ciascuno di noi, nel suo quotidiano, contribuisce ad una salute e ad una malattia globali troverà nel testo di Paolo Vineis, Salute senza confini. Le epidemie al tempo della globalizzazione (2020 (2014), Codice), una guida documentata con precisione, un linguaggio accessibile ma sempre scientificamente corretto e preciso.
D’altra parte non potrebbe essere che così visto che Paolo Vineis è professore ordinario all’Imperial College di Londra, dove è docente di Global Health e conduce ricerche sulle cause ambientali del cancro e sugli effetti del cambiamento climatico.