Di Miriam Gandolfi, psicologa e psicoterapeuta dei sistemi complessi
Fin dalla storia più remota dell’uomo chi era in grado di curare o affermava di saper curare malattie del corpo e dello spirito ha goduto di una posizione particolare nella propria comunità. Lo stregone/mago o la strega/maga dovevano assumersi la responsabilità di proteggere e agire per il bene non solo del singolo, ma dell’intera comunità cui appartenevano. Dal momento che erano considerati in contatto con la divinità che concedeva loro poteri taumaturgici, ma anche pericolosi, essi dovevano vivere in modo moralmente ineccepibile Godevano di privilegi, ma portavano grandi responsabilità e rischiavano pesantemente qualora i loro rimedi non si fossero rivelati all’altezza delle aspettative. Corteggiati da Capi e Re dovevano destreggiarsi tra la seduzione del potere e la fedeltà alla loro missione.
Via via che i curatori si separarono da un ruolo anche sacerdotale, essi persero la protezione sovrannaturale e dovettero rispondere sul piano civile dei loro insuccessi. Nel famoso codice babilonese di Hammurabi (1700 a.C.) troviamo già le prime sanzioni e riprovazioni sociali trasformate in pene, per danni causati dall’attività medica.
In Occidente consideriamo Ippocrate il padre della medicina scientifica, a lui si fa risalire il famoso giuramento “primo non nuocere”. Ma anch’egli è debitore verso una conoscenza medica che l’ha preceduto: quella indiana e cinese, e nei suoi testi sull’etica e il portamento di colui che cura troviamo gli stessi principi morali di quei primi testi medici:
“Il rispetto della persona umana, il possesso di conoscenze e abilità di guaritore, la capacità di provare compassione per il malato, non cercare guadagni personali a spese dei malati che chiedono aiuto, essere sessualmente casti con i pazienti e i componenti delle loro famiglie e non discriminare tra pazienti ricchi e poveri” (G. Corbellini, p.209).
Nel corso della storia il medico acquistò sempre più importanza sul piano politico e sociale. Nel 1614 Rodrigo da Castro illustra nel suo Medicus politicus le qualità morali del medico. Infatti la medicina diventava sempre di più qualcosa che andava oltre la cura e l’attenzione dei singoli malati, per studiare e cercare strategie utili a migliorare la salute della società, intesa come un organismo. Mentre i professionisti della cura diventavano socialmente e progressivamente più importanti, le implicazioni di etica politica e il loro rapporto con il potere manifestavano sempre più chiaramente un’intrinseca ambiguità: come distinguere il bene comune da quello personale del medico e ancor più di chi rappresenta e gestisce il potere? Come garantire una formazione tecnico-scientifica e insieme una consapevolezza delle responsabilità verso il singolo e la collettività? Come garantire autonomia, trasparenza e qualità nella formazione dei futuri operatori della salute in rapporto alle scelte di politica sociale dei governi? Come e in che ambiti garantire gli investimenti economici ai fini di ricerca? Come garantire la fedeltà della scienza medica allo spirito antidogmatico che deve caratterizzare ogni disciplina scientifica?
Le ambiguità nella gestione di questi aspetti e i conflitti di interesse sempre più evidenti tra scopi scientifici e scelte politiche raggiungono il culmine in quella che è definita l’età della bioetica.
Durante la seconda guerra mondiale emerse con grande evidenza la possibilità di asservire la ricerca e la scienza medica a finalità che violavano brutalmente i diritti umani fondamentali. Ma non fu quella la prima volta. Negli anni trenta, in Alabama, circa quattrocento persone di colore, affette da sifilide, erano state mantenute in osservazione, a scopo di ricerca, decidendo di non trattarle con penicillina, nemmeno dopo la seconda guerra mondiale, quando essa era disponibile. E non fu l’unico caso e scoperto solo negli anni ’70 (Tuskegee Study). D’altra parte il trattamento dei pazienti definiti “malati mentali” era già dagli inizi del ‘900 un campo di sperimentazione arbitraria di metodi altamente lesivi della dignità umana a fronte di scarsi o nulli risultati. È così che negli anni ’70 del secolo scorso, l’oncologo americano Van Rensselear Potter usa il termine bioethics per riferirsi alle sfide che mostravano sempre più evidenti le connessioni tra i progressi tecnici della biomedicina, della fisica, della chimica, della genetica, dell’incremento demografico e i primi allarmanti segnali di crisi ambientale. È in questi anni che proprio in biologia viene formulata la teoria generale dei sistemi (Ludwig von Bertalanffy)
È grazie a questo allargamento teorico applicato alle scienze degli esseri viventi che il termine bioetica assume un significato diverso da quello fin li assegnato: si inserisce nella cornice delle teorie delle complessità, in cui lo studio e la gestione delle connessioni tra tutti i livelli che concorrono al problema, in primis quello economico, giocano un ruolo fondamentale nell’individuare priorità e strategie. Pochi anni prima della sua morte (1972) von Bertalanffy sollecitò la psichiatria americana (APA) ad applicare questo approccio alla definizione e trattamento delle “malattie mentali”. Quell’invito rappresentò uno dei cambiamenti più importanti e radicali nel campo della salute mentale.
Dagli anni ’70 del XX secolo in poi sono stati stilati documenti che hanno cercato di garantire un corretto equilibrio tra un’illusione di infinito progresso tecnico anche in ambito biomedico e tutela dell’essere umano. Essere umano che non poteva più essere sacrificato come cavia sperimentale per un supposto progresso di conoscenza. (Encyclopedia of Bioethics, 1972 prima edizione, 1995 seconda edizione). È in questi decenni di vertiginoso progresso tecnico che diventa sempre più evidente la necessità di regolamentare la ricerca e di tutelare l’informazione, la consapevolezza e l’autonomia decisionale del cittadino per evitare di cadere in un pericoloso e incontrollato paternalismo di chi, dietro una facciata di maggior competenza, può perseguire altri fini e altri interessi.
Dall’inizio del XXI secolo si registra che, nonostante il Codice di Norimberga e la Dichiarazione di Ginevra del 1948 siano considerati ancora capisaldi fondamentali, e che siano stati promulgati leggi e pronunciamenti internazionali che mirano a consolidare e valorizzare gli aspetti etici della cura (libertà di scelta, consenso informato, divieto di violazione delle convinzioni etiche e religiose, trasparenza e obiettività nella farmacovigilanza, informazione sulle finalità e metodi scientifici usati nella ricerca, possibilità di obiezione di coscienza del ricercatore e del medico), essi sono diventati negli ultimi anni relativamente secondari. Non solo condizionati da scelte politiche di ipotetico risparmio della spesa sanitaria e da una spinta del marketing farmacologico sempre più aggressivo, ma da un approccio che vede “l’insegnamento della bioetica in ospedali e scuole di medicina come un sistema di procedure decisionali astratte, dando origine ad un’etica preconfezionata che consenta di dare risposte semplici e soluzioni veloci ai numerosi problemi morali che medici e ricercatori si trovano ad affrontare” (Corbellini, p.221).
Queste poche note tratte dal libro: Storie e teorie della salute e della malattia, (Carocci, Roma, 2014) di Gilberto Corbellini, professore ordinario, docente di bioetica nella facoltà di Farmacia e Medicina della Sapienza di Roma, scritte in tempi non sospetti, sono fondamentali per comprendere quanto è avvenuto in questi due anni di gestione della pandemia di Covid-19. Egli richiamava già allora l’attenzione sul rischio di errore astorico, ovvero una visione miope del processo di cura, che non tiene conto del fatto che salute e malattia sono collegate in modo inscindibile alle dimensioni socio-culturali, in cui gli aspetti economici, dettati dal modello di sviluppo del momento, giocano sempre un ruolo fondamentale e che la bioetica dovrebbe essere una disciplina indispensabile nella formazione di chi si occupa di salute. In un mondo dominato dalla complessità non è possibile attuare misure settoriali e “banalizzanti”.
A fronte di queste affermazioni, ciò che è avvenuto e che ci attende nei prossimi mesi non è per nulla rassicurante. Appare perciò fondamentale il contributo offerto dal Comitato Internazionale per l’Etica della Biomedicina (CIEB), promosso da Luca Marini, docente di diritto internazionale presso l’Università La Sapienza di Roma ed ex Vice presidente del Comitato Nazionale italiano per la Bioetica, attualmente presiede l’European centre for science, ethics and law (Ecsel), e da Francesco Benozzo, docente di filologia e linguistica presso l’Università di Bologna Alma Mater Studiorum (https://www.ecsel.org/cieb/).
Mi sento di condividere in pieno le dichiarazioni rilasciate dal prof. Marini circa il fatto che “il Covid è stato gestito mediante strumenti politici e non sanitari”, in cui i principi di bioetica sopra enunciati sono stati regolarmente ignorati.
Ciò è avvenuto attraverso una sapiente regia in cui la scienza della cura, fisica e psichica, è stata esautorata delle sue competenze specifiche, facendo slittare il dibattito dal piano medico-scientifico al piano del diritto (cosa può saperne un giurista di medicina?) e trasformando le voci degli scienziati della salute dissidenti o in stregoni incompetenti o in irresponsabili facinorosi sindacali. Questo spiega l’accanimento verso il personale sanitario, attuato con la connivenza tanto miope quanto impropria degli Ordini Professionali. Accanimento confermato con il comunicato del Governo del 17 marzo, che prevede il prolungamento dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario fino al 31 dicembre 2022. Decisione presa contro ogni motivazione logica di tutela della salute come bene comune, ma perfettamente in linea con l’esercizio di un potere che deve piegare proprio chi è più competente e in grado di comprendere e motivare le critiche alle misure sanitarie messe in atto. Una volta creata la frattura tra lo scienziato della cura e il cittadino e aver sdoganato l’idea che le leggi non proteggono la salute collettiva, ma anzi la intralciano, maghi, sacerdoti e agenti di commercio al servizio del re avranno buon gioco.
Come sostiene il prof. Luca Marini: ”Da questo gioco esce “privilegiato” solo chi sceglie di azzerare capacità di analisi e spirito critico ed esce vincente solo chi governa con buona pace dei principi su cui si fonda la società democratica e lo stato di diritto”. Ma “Sono sempre di più le persone che fanno fatica a credere che il Covid non sia stato un pretesto per trasformare in senso autoritario società liberali e democritiche” e non vede come la scienza medica sia stata “in questo caso ridotta a scientismo”. (La Verità, 7 marzo 2022, p.12. I pareri espressi dal CIEB circa gli aspetti bioetici della gestione della pandemia sono pubblicati anche nel settore “Leggi” di OraX).