L’intelligenza mi rincorre. Io sono più veloce!
di Miriam Gandolfi, psicologa psicoterapeuta dei sistemi complessi, 29 marzo 2022
Questa scritta è comparsa su un brandello del muro di Berlino all’indomani della sua caduta (9 novembre 1989). Il suo autore evidentemente nutriva dei dubbi sul fatto che gli umani avrebbero realmente imparato qualcosa da quella drammatica esperienza. Infatti! Del resto la specie umana ha sempre generato qualche profeta o Cassandra in grado di riconoscere la differenza tra un comportamento intelligente e uno stupido della propria specie, ma forse proprio per questo essi risultano così antipatici e restano inascoltati. Dalla notte dei tempi gli umani, che si considerano i più intelligenti abitanti della Terra, si interrogano su cosa sia l’intelligenza, su quali siano i comportamenti da definirsi intelligenti, sensati, utili o bizzarri e stupidi.
Il primo a tentarne una definizione scientifica fu Francis Galton, cugino di Darwin, che intravvide nella teoria evoluzionista del geniale parente la possibilità di incoronare homo come l’essere più intelligente del pianeta Terra. Va ricordato che Galton fu l’inventore dell’eugenetica. Ovvero la scienza per il miglioramento della specie umana, che egli espose nel 1883 con il suo testo “Indagini sull’intelletto umano e il suo sviluppo”. Da quel momento l’illusione di uno sviluppo infinito, di predominio dell’uomo sulla natura, il concetto di intelligenza e l’ossessione umana di trasformare tutto in numeri non ha più smesso di tormentarci. Ecco allora cercare modi di misurarla con un quoziente, che segnasse il confine tra chi poteva dichiararsi possessore di intelligenza, chi di tanta e potersi chiamare “genio”, chi di poca ed essere perciò definito appartenente a una qualche sottospecie. Dopo Galton i tentativi “scientifici” di definire cosa fosse l’intelligenza si sono susseguiti senza interruzioni, offrendo un panorama interessante sull’intelligenza dei ricercatori stessi e dello Zeitgeist di cui sono stati testimonial. Psicologi e psichiatri americani e anglosassoni furono dei veri apripista in materia. C. Brigham (1923), pioniere della psicometria, sposando in pieno l’idea che l’intelligenza è il frutto della selezione genetica naturale e dunque il “premio per un patrimonio genetico individuale migliore”, sostenne che l’intelligenza degli Americani di razza bianca nordica veniva inquinata dalle razze mediterranee e slave. Quindi prima di consentire agli immigrati proveniente dall’Europa di sbarcare sulla terra ferma essi venivano fermati su Ellis Island e sottoposti a test di intelligenza. Se la “misura” risultava sotto un certo QI (quoziente intellettivo) venivano rispediti altrove. Questa presunta definizione scientifica di intelligenza, in cui naturalmente la conoscenza della lingua giocava un ruolo significativo, fornì all’Immigration Act del 1924 una legittimazione delle leggi contro la mescolanza razziale. Esse, già presenti da tempo in America, vietavano i matrimoni misti e legalizzavano la sterilizzazione di soggetti ritenuti insufficienti mentali o devianti.
Ma L. M. Terman (1928) prese in considerazione una raccomandazione di Darwin stesso, secondo il quale non tutta l’evoluzione, specialmente umana, poteva essere spiegata solo con la selezione genetica naturale, e accettò l’ipotesi che sullo sviluppo umano avesse un peso l’influenza ambientale. Anche in quel caso, per sentirsi scienziati “intelligenti” era obbligatorio trasformare tutto in numeri, così condivise l’idea che la proporzione di incidenza tra biologia e ambiente fosse 80% genetica, 20% ambientale. Questi numeri ebbero così tanto successo che ancora oggi la psicologia e psichiatria organicista li tengono per buoni. Però homo continuava a presentare comportamenti difficili da inquadrare chiaramente come intelligenti o stupidi, inutili o senza senso. Così J. P. Guilford (1967) cominciò a distinguere ed elencare diversi “tipi di intelligenza”, arrivando a distinguerne 120 tipologie. Naturalmente non tutte buone/utili alla stessa maniera. Così A. Jensen (1969) propose di non spendere soldi per l’istruzione dei “Negri”, visto che sulla base del punteggio medio della sommatoria delle diverse tipologie essi raggiungevano un QI basso, dimostrazione della loro inferiorità razziale.
Ma anche l’intelligenza degli studiosi dell’intelligenza evolve, soprattutto sotto le pressioni dei movimenti per i diritti umani. La definizione di intelligenza fin lì accettata appariva non soddisfacente oltre che imbarazzante. H. Gardner decise di mettere mano a una questione così spinosa e dalle importanti conseguenze sociali ed economiche, cercando di studiare e definire “l’intelligenza” per ben vent’anni (1987-2007). Stilò così un elenco di 9 macro gruppi di intelligenze: linguistica, logico-matematica, spaziale, corporeo cinestesica, musicale, interpersonale, intrapersonale, naturalistica, filosofico esistenziale. Aggiungendo via via delle sotto-specificazioni, per cercare di capirci qualcosa di più. Ecco allora spuntare l’intelligenza: «disciplinare, sintetica, creativa, rispettosa, etica». Anch’egli fedele alla teoria evoluzionista classica, che ipotizza che queste intelligenze siano l’espressione di altrettanti geni. Tuttavia anch’egli concede che «benché siano innate non sono statiche e possono essere sviluppate mediante l’esercizio». Oggi i neuroscienziati preferiscono usare il termine connessioni neuronali, ma sempre geneticamente determinate.
Questa classificazione, che prevede altrettanti quozienti di misurazione della normalità, è sostanzialmente alla base delle valutazioni che ancora oggi si eseguono per scolari, persone che ricevono diagnosi psichiatriche o che soffrono di malattie degenerative del cervello. Ma, mentre per questi ultimi queste misurazioni sono abbastanza utili per spiegare comportamenti bizzarri e nuovi in persone che fino a prima della malattia si comportavano in modo “normale”, cioè “atteso”, per scolari e adulti “psichiatrici” il mistero resta fitto. A volte questi soggetti hanno comportamenti “normali” e a volte hanno comportamenti di cui non si comprende il senso o l’utilità. Tutti noi abbiamo la sensazione che quando ci agitiamo, siamo spaventati o innamorati facciamo stupidaggini. Ci viene così in soccorso D. Goleman (1995) che propone il concetto di intelligenza emotiva. Giusto l’ingrediente che mancava alla ricetta che serviva per confezionare l’intelligenza umana: puoi anche essere un genio del calcolo e del ragionamento astratto, ma se l’intelligenza emotiva è troppa o troppo poca la pietanza risulterà “non equilibrata”, come ci spiegano gli chef ormai diventati maestri di vita. Come si vede è più che mai appropriata l’osservazione di uno dei più profondi intellettuali tedeschi ancora viventi M. Enzensberger, che nel suo saggio Nel labirinto dell’intelligenza (2007) scrive: «Debordante, poroso, diffuso: così si presenta il concetto di intelligenza». Significativo è il sottotitolo dell’edizione originale, che in italiano è stato censurato: “Una guida per idioti”. Come si vede il problema di definire un comportamento come “intelligente” è tutt’altro che risolto. Sembra che homo, che discende non solo dalla scimmia, ma dagli esseri viventi che l’hanno preceduta: vegetali, insetti, rettili ecc. porti sempre uno strascico di comportamenti “poco intelligenti”, di cui non si comprende l’utilità ai fini evolutivi.
Se avete occasione di visitare il MUSE, museo di scienze naturali di Trento, troverete che questo è ancora un rovello per alcuni scienziati. Telmo Pievani, studioso di evoluzione in tutti gli ambiti, e Giorgio Vallortigara, neuropsicologo studioso di evoluzione del comportamento intelligente, vi guideranno in una dotta riflessione sulla bizzarria del comportamento altruistico e solidale presente in tutti gli esseri viventi dagli insetti all’uomo. La domanda a cui pare non siano ancora riusciti a dare risposta è: “a cosa serve l’altruismo?” Perché continua a trasmettersi di generazione in generazione, e presente di specie in specie, visto che, secondo loro, è dannoso e penalizzante per il soggetto che lo pratica? Ascoltando le loro ipotesi di spiegazione viene spontanea un’altra domanda: come mai gli uomini nella loro corsa evolutiva hanno sviluppato un comportamento che appartiene solo a homo, che non compare negli altri viventi, quindi che non può aver ereditato dalla selezione naturale; mi riferisco alla guerra. Gli altri animali, in caso di conflitto, privilegiano sempre l’abbandono del campo, la sopravvivenza, noi diremmo il disarmo. Forse la risposta sta proprio in quel brandello di muro:
l’intelligenza ci rincorre dalla notte dei tempi, ma da quando siamo diventati bipedi corriamo troppo in fretta per lasciarci raggiungere.